Capo Rossello/Capo Russello

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Capo Rossello/Capo Russello

[parole chiave: ‘Capo Rossello/Capo Russello; mare; pilaja’]

L’entrata in scena del Capo Rossello (Capo Russello, in vigatese) sull’ampio palcoscenico del teatro camilleriano lascia da subito presagire che abbiamo di fronte una vera e propria star.

Siamo nel 1978 di Il corso delle cose, nella pagina iniziale del romanzo, la prima delle numerose che Camilleri pubblicherà fino al 2019, anno di sua morte, o piuttosto fino al 2016, quando il Capo Russello per l’ultima volta comparirà, nel racconto I quattro Natali di Tridicino. L’incipit del romanzo investigativo Il corso delle cose è un elogio della bellezza, la prima descrizione di un mondo naturale ricco di pregio e segnato da contrasti drammatici, tale da poter stare alla pari con altri inarrivabili paesaggi, quali sicuramente sono quelli della città di Venezia, da cui viene il carabiniere Tognin: “Effettivamente il tramonto era da godersi. Lontano, a ponente, verso il mare distante qualche chilometro, la sagoma frastagliata di Capo Rossello spiccava controluce, scura, sullo specchio calmo, arrossato, mentre da levante carriche nuvole d’acqua arrancavano verso il paese appena visibile ai piedi della collina sulla quale loro si trovavano. Un contrasto netto, tagliato col coltello, che aumentava il disagio di Tognin abituato a un paesaggio più morbido e pacifico” (CC 13).

Il lettore dovrà attendere due anni, fino al 1980 di Un filo di fumo, per avere notizia di quella terra affacciata sul mare, o, piuttosto, di un’importante caratteristica delle acque che la bagnano: “All’alba del 13 luglio del 1831, vale a dire sessant’anni prima, il Capitano Mariano Currao di Vigàta, che qualche tempo avanti aveva trovato un banco miracoloso al largo del suo paese, in una zona compresa fra lo scoglio dello Zito e Zita e la punta di Capo Russello, si era recato con la sua barca a strascico per fare la quotidiana minnitta di pesci dopo essere riuscito a seminare, con giri a coda di porco e finte fermate, tutti gli altri capibarca” (FF 94).

Siamo appena al secondo romanzo, ma è già possibile intuire che Camilleri semina a spaglio, spargendo una semente capace di produrre frutto nell’immediato e nel futuro: della sua propensione per la precisione geografica, già avevamo cominciato a formarci un’idea; qui intuiamo che la geografia non solo coincide con la bellezza del creato, ma ha anche a che fare con l’economia, con le risorse produttive che il territorio, e il mare da cui è bagnato, possono offrire agli abitanti, con le dinamiche sociali. Senza dimenticare la storia, che in quei luoghi si è svolta: fatta di elementi obiettivi, riscontrabili sui documenti, e di spunti che paiono predisposti, in attesa di un buon narratore sollecito a raccoglierli e renderli funzionali a una trama che si svolge sul finire dell’Ottocento.

Occorre aggiungere che Capo Russello, frequentato da pescatori e, si comprende, dall’addetto al faro che lo sormonta, è un luogo isolato: non solo nell’Ottocento, ma ancora nella seconda metà del Novecento, epoca in cui il commissario Montalbano svolge le sue indagini: in un felice, e forse ultimo, momento, prima del turismo di massa che sembra intravvedersi all’orizzonte. Tale almeno appare in due racconti, Una gigantessa dal sorriso gentile e Un angolo di paradiso compresi nella raccolta Un mese di Montalbano (1998): “«Stamatina all’alba un pescatore ha visto un’auto sdirrupata sugli scogli di Capo Russello. Ci è andato il dottor Augello, ha telefonato poco fa. è quella di Landolina.» «Una disgrazia?» «Direi proprio di no» fece Mimì Augello trasendo nell’ufficio. «La strada è lontana assà dal ciglio di Capo Russello, bisogna arrivarci di proposito, non può avere perso il controllo dell’auto. Ci è andato apposta per catafottersi giù.»” (MM 81); “Sei giorni avanti quell’imbecille di Mimì Augello, mentre si trovava a cena in un ristorante con loro due, si era messo a vantare una sua scoperta: la minuscola spiaggetta tre chilometri appresso il faro di Capo Russello, solitaria, a tutti ignota, raggiungibile solo via mare. Ne parlò con tale entusiasmo che Livia se ne incantò: Mimì descriveva il posto come una specie d’isola di Robinson senza manco un’orma di Venerdì, e da quel momento Montalbano non ebbe più abento: «Quando mi porti alla spiaggetta?» era diventato il ritornello di Livia in media nove volte al giorno” (MM 351).

Un luogo isolato, dunque, dove un’automobile può precipitare (o essere fatta precipitare) sugli scogli e nessuno se ne accorge, se non un pescatore intento al suo lavoro, ma anche un angolo di paradiso, come eloquentemente spiega il titolo del secondo racconto: tanto in sé e per sé, quanto per le spiaggette solitarie – solitarie perché ignote ai più – e raggiungibili solo dal mare (o almeno così si credeva in un’età tutto sommato ingenua, prima che si dimostrasse come sia possibile raggiungere, per chi lo voglia, anche le più scoscese scogliere).

A fronte di questa visione da vicino che esalta la percezione del particolare, della sabbia non contaminata da impronta umana, Camilleri, nel 2000 di La gita a Tindari, descrive pure la veduta d’assieme e da lontano, che segnala la bellezza di quel luogo, al cui confronto scapita l’ambiente (malamente) urbanizzato: “Si mossero verso il lato mancino della villa. Il parterra era un vasto spazio, aperto per tre lati, che aveva come soffitto il terrazzo del primo piano. Attraverso i sei archi slanciati che lo delimitavano, a mano dritta si godeva uno splendido paesaggio. Chilometri di spiaggia e di mare interrotti all’orizzonte dalla sagoma frastagliata di Capo Rossello. A mano manca il panorama invece lasciava molto a desiderare: una piana di cemento, senza il minimo respiro di verde, nella quale s’annegava, lontana, Vigàta” (GT 116).

In La paura di Montalbano (2002) Capo Rossello è visto, – come già in Il corso delle cose, e praticamente con le stesse parole – circonfuso di un fascino temporalesco: “si era susùto un vinticeddro friddo che merlettava il mare. Da capo Rossello avanzavano nuvole nivure, carriche di male ’ntinzioni” (PM 144; le stesse nuvole torneranno in La danza del gabbiano, del 2009: “A mano dritta, da monte Russello, arrancava già qualichi nuvola nìvura” DG 10), mentre in Il giro di boa (2003), la prima citazione del capo è riferita a un elemento naturale non ancora chiamato in causa: “Là ci sono correnti che o portano al largo o procedono parallelamente alla costa. Bastavano due giorni e il catafero sarebbe arrivato a capo Russello” (GB 53).

Le due successive menzioni, nello stesso romanzo, ritornano sul tema del suo isolamento, visto nella duplice prospettiva di chi voglia recarvisi per frequentare un piccolo ristorante ubicato nei paraggi “Un ristorante bono l’attrovò nei paraggi di capo Russello. Stava proprio sulla spiaggia, le pietanze erano cosa civile e non si pagava assà. Il problema era che tra andare, mangiare e tornare ci volevano minimo minimo tri ore [da Vigàta] e lui tutto questo tempo non sempre ce l’aviva” (GB 79), o per scopi meno leciti da praticare senza essere visti: “Stasira alle deci e mezza io, con una machina veloci che mi fanno trovare davanti alla casa, devo andare in un posto vicino a capo Russello, carricare delle persone e portarle dove uno di loro mi farà sapere” (GB 188).

Non sfugga il dettaglio del tempo necessario per andare e tornare dal ristorante dopo aver mangiato. Camilleri, a suo modo, come rispetta la storia (che pure manipola), altrettanto fa con la geografia che può talvolta diventare fantastica, ma resta, a suo modo, aderente al reale. Si prendano un ulteriore passo di Il giro di boa (“Vossia piglia la strata per Montereale e la passa. Prosecue per una tri chilometri e a mano mancina vede una fleccia che c’è scritto capo Russello” GB 218) e uno di Il casellante (2008): “«Di ‘nverno ‘u mari è forti?». «Sissi, ma non tanto. Ccà semo arriparati a mano manca da capo Russello e a mano dritta da capo Bianco». «A capo Russello ci sta ‘na torri d’avvistamento. Lo sai se c’è macari a capo Bianco?». «Nonsi, a capo Bianco non c’è».” (CS 66). I contesti e i tempi sono diversi: nel primo caso siamo in un’indagine di Montalbano e Catarella, nella sua lingua approssimativa ma con sostanziale esattezza, dà un’indicazione stradale che, sostituiti i toponimi camilleriani con quelli della carta stradale, potrebbe condurci alla meta, superato quel Montereale sotto cui in maniera trasparente si cela Realmonte; nel secondo siamo durante l’ultima Guerra mondiale e Capo Russello, insieme a Capo Bianco che si trova poco più a nord, dominano sulla costa.

Nel mese di maggio del 1939, pochi anni prima degli eventi narrati in Il casellante, avvengono i fatti di cui Camilleri dà conto in La trovatura, uno dei racconti compresi nella raccolta Gran circo Taddei e altre storie di Vigàta (2011). L’avventurosa (e sapida) vicenda di Arsenia, la maga di Zammut, trova il suo scioglimento proprio a Capo Russello, qui non definito, come altrove, un angolo di paradiso, ma similmente dotato di qualità edeniche che contribuiscono a convincere la maga ad abbandonare l’attività di “chiaromante chiaroviggenti” e riprendere il proprio nome di Caterina per vivere insieme a Jachino Pizzuto: “Doppo, la portò nella casuzza che aviva a Capo Russello. Stava in pizzo in pizzo a ’na punta di terra che s’infilava dintra al mare e darrè il tirreno pariva un pezzo di paradiso, verde di piante, di foglie, di frutti. «Mi voglio fari un bagno a mari!» disse Caterina. Scinnero fino alla pilaja che pariva fatta d’oro, torno torno non c’era nisciuno, sulo i gabbiani.” (GCT 288).

Più di quarant’anni dopo questi eventi, la modernità un qualche segno deve averlo inciso anche in quei luoghi incontaminati. Intendiamo riferirci al racconto Notte di Ferragosto (2013), ambientato in un tempo che Camilleri sembra definire con esattezza, anche se fornisce un’errata indicazione: “Mangiaro e vippiro nella verandina con un sottofunno musicali non propiamenti armonioso, che viniva dalla pilaja indove che primiggiavano Al Bano e Romina che l’anno avanti avivano vinciuto a Sanremo con ’na canzuna che s’acchiamava Felicità” (NF 17). A onor del vero, con quella canzone Al Bano e Romina non vinsero, ma arrivarono secondi al Festival del 1982, dietro a Riccardo Fogli: come che sia, attraverso un riferimento incerto abbiamo una data certa, il 1983, in cui avvengono i fatti narrati. Siamo, come dice il titolo, nel giorno di Ferragosto, nella grande festa dell’estate alla quale nessuno può sottrarsi, neanche i paraggi, un tempo solitari, di Capo Rossello: “I nostri amici hanno trascorso quella notte nella villa di uno di loro a Capo Rossello” (NF 40); “Sì, avivano passato la nuttata nella villa di Capo Rossello” (NF 42).

A restituirci la dimensione primigenia provvede l’ultimo racconto in cui il Capo Russello è nominato: I quattro Natali di Tridicino, del 2016, che comincia in una data esatta, sulla quale non possono esserci dubbi, e in un luogo che in effetti è un non luogo, ovvero un punto del mare prospiciente il capo: “Tridicino nascì proprio dintra a quella varca, sò matre si sgravò mentri che attrovavasi a bordo, a sei miglia da Capo Russello, la matina del quinnici di maio del milli e ottocento e deci” (NT 11).

Tutto ciò avrà non piccola incidenza nella vita del protagonista, Tridicino appunto, ma, cosa che più conta, dà una conclusiva informazione – come un expertise redatto da uno specialista – su quell’opera d’arte naturale che il Capo Russello è nell’opera camilleriana e sulla sua natura ibrida di terra che non può definirsi in quanto tale ma, piuttosto, per il protendersi sul mare, compenetrandosi col quale raggiunge la sua vera identità.

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Se, dopo aver evocato le tavole del palco di Sanremo, volessimo ora entrare nel campo sportivo, sulla base dei casi esaminati potremmo concludere: Russello batte di gran lunga Rossello. Ma questa è una situazione in cui il tabellino che rileva le occorrenze non è sufficiente, da solo, a descrivere un fenomeno linguistico simile a quello fisico di cui dà conto: come nell’entità geografica descritta da Camilleri il confine tra terra e mare è incerto, altrettanto lo è quello che corre tra italiano e vigatese, lingue che in certi momenti paiono compenetrarsi e a dividerle non sembra bastino una u o una o perché forse non stiamo parlando di una modalità della pronuncia, di un suono: piuttosto, di uno stato d’animo, di un sentimento, del sentirsi parte integrante dell’universo naturale e umano che nel Capo Russello si manifesta (g.m. luglio 2021).