Vociari (vocari?) in I quattro Natali di Tridicino

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Note lessicali

Vociari (vocari?) in I quattro Natali di Tridicino BP.

[parole chiave: ‘remare; gridare’]

Nel 2016 Andrea Camilleri pubblicò I quattro Natali di Tridicino, racconto in parte realistico, in parte fiabesco, di cui è protagonista un personaggio visto nelle diverse età della vita: bambino, giovane, uomo fatto e vecchio.

Nella fase di passaggio all’età adulta, proprio come rito iniziatico, Tridicino, che di mestiere è pescatore, riceve da un anziano l’insegnamento riservato a pochi, quello che consente di “tagliari la dragunara”, colpire la tromba marina nel suo punto debole, impedendole di nuocere a quanti faticano la vita tra le onde del mare: “Era un’arti antica e sigreta che non stava scrivuta in nisciun libro di mari, passava di vucca ’n vucca, di generazioni in generazioni” (NT 14).

Avvistata la dragunara, mentre Tridicino vorrebbe invertire la rotta per allontanarsi da quella “mala vestia potenti e scantusa”, il vecchio pescatore lo esorta ad andarle incontro anzi, egli stesso, “che pariva essiri tornato picciotto, ammainò, si misi ai remi e principiò a vogari alla dispirata verso il becco-pompa dell’armàlo ’nfilato nell’acqua” (NT 15).

Il verbo utilizzato per indicare l’atto della voga è, qui, vogari, che troviamo anche in La rete di protezione (2017): “Po’, salutati a tutti, stava per scinniri nella varca a remi quanno Ingrid dissi: «Posso tornare con te?». «Ma io non vado in paese. Voglio farmi accompagnare lì» e indicò il sò solito scoglio chiatto che stava propio sutta al faro. «Non ha importanza» dissi Ingrid. «Vengo lo stesso con te e poi torno a piedi». Acchianaro e il marinaro accomenzò a vogari verso lo scoglio” (RP 213).

In L’altro capo del filo (2016: ovvero lo stesso anno di I quattro Natali di Tridicino) la consonante g del verbo vogari subisce un processo di assordimento, dando luogo a vocari: “In dù misiro la varca addritta, l’ammuttaro verso la rina vagnata e po’ la prima ondata l’agguantò e se la strascinò ’n acqua. Montalbano e il piscatori ci sataro dintra. L’omo armò i remi e si misi a vocari di gran forza” (ACF 25-26).

Il Piccitto al lemma “vucari1” attribuisce il significato di “remare, vogare” e indica l’imperativo “voca” che ricorre nelle espressioni voca fora!  e voca nterra! (pronunciato dal pescatore che, avvistato il pescespada, dà all’equipaggio le indicazioni di rotta) e “voca voca! comando dato ai rematori per farli vogare con più forza”. Aggiunge, poi, un lemma “vucari2”, col significato di “gridare contro q.”.

Ciò è particolarmente interessante in riferimento al testo di cui ci occupiamo, il cui epilogo è illuminato dal pensiero che la vita continua per la possibilità (e per il dovere) di trasmettere la propria conoscenza ai giovani: nel caso di Tridicino, al nipote Stefano. Dopo la morte della moglie, Tridicino, caduto in prostrazione, si era interrogato sul senso dell’esistenza ed era arrivato a pensare di farla finita; alla maniera sua, ovvero nella sfida col polpo gigante. Con questo proponimento, fattosi prestare un caicco, “si nni partì e a forza di rimi, doppo quattro ure di voca che ti rivoca, arrivò allo scoglio di Mannarà” (NT 45).  Su quel lontano scoglio, però, un evento che sembra superare il reale gli restituisce speranza nel futuro: “Tornò nella varca e principiò a vociari verso il porto. E mentri rimava, pinsava a quante cose aviva ancora da fari. La prima di tutte, ’mparari a Stefano come si faciva a tagliari la dragunara” (NT 46).

Ma qui sorge un problema: il verbo (come anche il sostantivo) ‘vociari’ che troviamo in quest’ultima frase è sistematicamente impiegato da Camilleri, col significato che il Piccitto attribuisce a “vucari2”, ovvero gridare o, per dirla in vigatese: “fare voci”. Vediamo alcuni esempi, scelti tra quelli che appartengono sicuramente alla lingua camilleriana e non siano omografi rispetto alle voci del verbo italiano ‘vociare’: “Subito la frasi vinni passata di vucca ’n vucca da cintinara di pirsone. Quelli che s’attrovavano per strata l’arripitero a quelli che stavano alle finestre, quelli che stavano affacciati alle finestre la gridaro a quelli dei balcuni, quelli che stavano nei balcuni la vociaro a quelli delle tirrazze, e quelli che stavano supra alle tirrazze la dissiro al vento e il vento si portò appresso la voci fino alle campagne cchiù vicine a Palizzolo” (SAN 165); “Un minuto appresso sintì un gran vociari” (VV 37; qui troviamo anche il gerundio: “E i dù, vocianno, s’arrutuliaro ’n terra” VV 286); “Scinnero le scali a pedi ma al principio dell’ultima rampa sintero un vociari animato” (MCAT 36).

Ce n’è a sufficienza per considerare che Camilleri usi vociare nel significato di ‘gridare’; di conseguenza possiamo ritenere certo che Tridicino, presa la decisione di rientrare nel ritmo della vita per insegnare al nipote il modo per combattere la dragunara, salga sulla barca e prenda a vocare, ossia a remare, con decisione, verso il porto.

E del resto, che senso avrebbe mettersi a vociare stando da solo in mezzo al mare?

Esposte le ragioni filologiche, mi piace aggiungere un elemento soggettivo. Subito dopo la pubblicazione di I quattro Natali di Tridicino, andai a trovare Camilleri, mi complimentai per l’efficacia del racconto e gli chiesi conto di quel vociare che mi pareva querulo e, quindi, non consentaneo col personaggio: “È un errore” rispose; forse attribuendone la responsabilità alla digitazione del testo.

Domandai anche di una certa atmosfera fantastica che creava un efficace mescolanza con i tratti realistici e mi sembrava accostare il racconto alla trilogia delle metamorfosi.

Confermò la mia opinione, ma non disse che i testi fossero coevi: cosa che mi sembra possiamo dedurre anche da quel vocari, proditoriamente sostituito da vociari, e che invece tale sarebbe dovuto essere come accade nel coevo Altro capo del filo (g. m. maggio 2021).